Il Canto Di Orfeo
EXCLUSIVE INTERVIEW: Maya Kulenovic
July 2016
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Danilo Cardone: Le tue opere sono fatte di luci e ombre che spesso abbracciano una gamma cromatica quasi monocroma. Questa tensione drammatica spiazza lo spettatore generando innanzitutto una sorta di ansia calma. È questo che cerchi di comunicare? Quale speri sia la funzione delle tue opere?
GRASSLANDS / DOWNSTREAM, 2017, oil on canvas, 40″ X 94″ (102cm X 238cm)
Maya Kulenovic: Direi che generalmente non mi tiro indietro di fronte a sensazioni sgradevoli o disturbanti, tuttavia il mio atteggiamento in presenza di queste sensazioni nel momento in cui dipingo è di un certo distacco e di calma riflessione.
Non punto a dipingere specificatamente “l’ansia”; malgrado ciò i miei dipinti possiedono una sorta di strana ambiguità: contengono molte idee e sentimenti forti, alcuni dei quali si contraddicono l’un l’altro. Alcuni elementi potrebbero sembrare conosciuti e familiari a una prima occhiata, ma lo sono senza scadere nello stereotipo, sono sempre riconsiderati da una prospettiva leggermente differente e di conseguenza è presente un aspetto a loro estraneo, sempre nuovo. Mi chiedi a riguardo dell’opposizione binaria luce/ombra: la luce non è necessariamente una metafora per il “bene” e le ombre non sono necessariamente malevole. Questa ambiguità può essere vista come un’ansia da alcuni, ma è una caratteristica molto importante della mia pittura.
Mi piacerebbe che i miei dipinti stabilissero una relazione forte e diretta con lo spettatore per permettergli di considerare luoghi e sensazioni che non ha mai considerato prima e per esortarlo a proiettare qualcosa di sé stesso dentro ai miei lavori. Vorrei che i miei dipinti fossero vissuti con un trasporto personale. Detto ciò, mentre dipingo non penso alla reazione dello spettatore, piuttosto mi focalizzo sulla creazione di qualcosa che parli di un qualche tipo di verità fondamentale, che abbia una vita propria, radicata nel conosciuto, eppure indipendente, aperta, imprevedibile e non categorizzabile.
DC: E’ difficile ricondurre la tua arte a dei precedenti univoci, e questo è un grande pregio. Malgrado ciò qualche reminiscenza persiste. Rembrandt, per esempio, è il nome che più spesso viene accostato al tuo. Nelle tue opere più recenti, però, mi sembra ti sia avvicinata anche ad altri grandi maestri del passato. In Whisper mi pare d’intravedere una radice nellaMadonna dei Pellegrini di Caravaggio, ma sopratutto in un’opera come Restoration il riferimento sembra essere Leonardo. Come mai sei passata dal modello di Lucian Freud delle tue prime opere a quello del Rinascimento?
MK: Da bambina ero particolarmente attratta dall’arte classica, dalla scultura greca a quella romana passando attraverso il Rinascimento sino circa al XVIIIsec. Ho trascorso ore attorniata da queste immagini, studiandole e copiandole, così da trasformarle in una sorta di seconda casa. Il mio rapporto con loro è estremamente personale. Questo fascino prematuro per la storia dell’arte mi ha dotata di un certo intuito circa le proporzioni e la previsione del risultato finale, così da avere una sorta di base spontanea dalla quale partire. Tuttavia dal momento in cui ho sviluppato un mio stile e una mia personalità mi sono interessata ad altro rispetto a queste che erano le mie precedenti aspirazioni. All’università ho cambiato per tempo i miei studi in storia dell’arte concentrandomi maggiormente sull’arte del Novecento, scoprendo così che il lavoro di certi artisti britannici come Freud e Bacon echeggiava in me, specialmente a proposito della materialità del medium e della fisiologica qualità di uno spazio estraneo, caotico e/o indefinito. Questo è stato un periodo di esplorazione e di apprendimento.
Nel momento in cui stavo sviluppando un mio personale approccio nei confronti dell’arte, queste variegate influenze hanno cominciato ad arrivare assieme sotto nuove forme e non tutte in maniera conscia. È come se le cose che ho imparato ed esperito – e non solo nell’arte, ma anche in ogni altro momento della vita – appartenessero a un universo privo di un senso cronologico, dal quale potevano essere liberamente ricombinate e modificate. Dipinti come Whisper e Restoration e il loro essere reminiscenza delle opere che hai citato, sono dei buoni esempi di tutto ciò. È però importante notare come entrambi non siano direttamente ispirati ai dipinti antichi, bensì siano un miscuglio di immaginazione e di una serie di fotografie, alcune trovate, altre scattate da me. La loro somiglianza con Caravaggio e con Leonardo appare spontanea, innanzitutto perché influenzata dalla scelta dei miei riferimenti. Successivamente compare nell’abbozzo iniziale dell’opera, ma poi decido di volta in volta di accettare alcuni di quei modelli all’interno delle mie opere.
DC: Le tue opere hanno un aspetto intimamente sacrale, che sviscera l’intimità dei personaggi che ritrai. Che cosa significa “sacro” per te?
MK: Credo che a riguardo dei miei dipinti sia più corretto parlare di “trascendenza” piuttosto che di “sacro”. Credo che la capacità di percepire la trascendenza sia un’abilità umana essenziale ed universale, la quale, per coloro che sono religiosi, è ancora legata a un sistema di credenze malgrado non avrebbe bisogno di esserlo. La trascendenza può rivelarsi in quei momenti nei quali un’esperienza ci colpisce nel profondo, a ogni livello del nostro essere. Ciò di cui siamo testimoni è ai nostri occhi ancora troppo straordinario per poter essere compreso, seppure sia qualcosa di cui tutti noi facciamo parte. Per una frazione di secondo siamo in grado di cogliere un rapido scorcio di infinito, e non solo in senso fisico. Per quanto mi riguarda, tutto ciò accade il più delle volte in natura e all’interno delle mie opere, ma anche in momenti straordinari di scoperta, durante la meditazione, o quando meno me lo aspetto: quando qualche verità celata circa l’esistenza e/o la condizione umana rivela improvvisamente e chiaramente sé stessa. La trascendenza è difficile da spiegare o da catturare dal momento in cui la si deve provare, e l’arte è probabilmente uno dei modi migliori per provarla.
DC: Cinema e fotografia, due aspetti che a mio avviso pervadono la tua arte. In fotografia l’aspetto pittorialista di un Cuvelier si fonde ad alcuni scorci silenti di Eugène Atget, per fare due esempi. Per il cinema invece? È per te fonte di ispirazione? A quali film e/o registi ti senti maggiormente legata?
MK: E’ proprio così. Innanzitutto credo che ci sia un senso del tempo nei miei dipinti che porta a una relazione con il cinema. Lo descriverei come una serie di momenti non consequenziali l’uno all’altro in modo lineare, ma sovrapposti, cosicché riflettano un particolare stato che si protrae nel tempo: uno stato mentale, esistenziale, ecc… Credo che anche per questa ragione sono attratta dalla fotografia delle origini, dove i tempi di esposizione erano molto lunghi e di conseguenza l’immagine finale rappresentava un insieme di tanti momenti brevi ma distinti. Anche nel mio procedimento c’è comunque qualcosa di cinematografico. Uso molti riferimenti: da immagini trovate in giro a serie di fotografie dello stesso soggetto scattate da angoli e con illuminazioni differenti. Persino la musica (e il silenzio) è qualcosa che solitamente considero mentre dipingo, come fosse una guida personale. Inoltre anche il senso del movimento, anticipato o ritardato, è un elemento fondamentale in quei momenti.
Se dovessi indicare solo poche cose tra tutto quel che preferisco nel cinema, direi i primi piani di Bergman, i paesaggi di Terrence Malick, gli scenari di Ridley Scott e le sensazioni di 2001: Odissea Nello Spazio. Per citare una lista di film che hanno avuto una presa in me per molto tempo, direi: THX1138, L’Uomo Che Fuggì Dal Futuro (George Lucas), Urla Del Silenzio (Roland Joffé), Blade Runner (Ridley Scott), Il Terzo Uomo (Carol Reed), Lawrence d’Arabia (David Lean), Stati Di Allucinazione (Ken Russell), Allucinazione Perversa (Adrian Lyne), La Sottile Linea Rossa (Terrence Malick), Ran (Akira Kurosawa) e un paio di film di Peter Weir che ho visto quando ero molto giovane: Picnic At Hanging Rock e L’Ultima Onda.
DC: I tuoi paesaggi hanno una potentissima forza evocativa. Paiono vivide e inafferrabili visioni oniriche. Quanto conta il sogno nella tua arte?
MK: Anche se non dipingo i miei sogni e non li trovo particolarmente utili come idee da copiare in maniera letterale per le mie opere, mi piace esplorarli e imparare da loro. Molti dei miei contenuti artistici arrivano dallo stesso posto dal quale arrivano i sogni, e ho notato che i miei dipinti di luoghi, che siano paesaggi o edifici, e i miei sogni lucidi hanno una resa simile, specialmente circa lo spazio e la luce. Trovo questi sogni pacifici e confortanti. Per me un buon metodo per generare idee sono gli stati di dormiveglia e di meditazione, dove posso osservare il libero fluire dei pensieri, così come le incontrollate spontanee associazioni mentali mentre ho ancora coscienza del presente.